La mobilizzazione e la prevenzione delle lesioni da pressione
Le lesioni da pressione sono un danno ai tessuti molli e/o ai tessuti sottostanti dall’eziologia multifattoriale, che colpisce prevalentemente la popolazione fragile (anziani, pazienti critici, pazienti allettati), con una prevalenza oggigiorno irragionevolmente alta e che affligge qualsiasi setting assistenziale.
LdP e mobilizzazione pazienti a rischio: che informazioni ci restituisce la letteratura?
Uno dei fattori maggiormente predisponenti il danno tissutale è lo stato di immobilità e inattività del paziente fragile, pertanto, il frequente riposizionamento e la posturazione del paziente immobilizzato a letto e/o la stimolazione precoce della mobilità residua vengono riconosciuti uniformemente nella letteratura internazionale come principali interventi infermieristici per la ridistribuzione dei carichi pressori, la prevenzione delle lesioni tissutali da pressione e il miglioramento del comfort del paziente.
Le linee guida internazionali indicano di garantire un intervallo di tempo tra una mobilizzazione e l’altra di circa 2 ore, poiché si è dimostrato che è questo l’intervallo di tempo medio sufficiente all’instaurarsi di una condizione di sofferenza cutanea con danni al microcircolo (EPUAP/NPUAP 2019).
I protocolli di posturazione risultano cruciali nel programma assistenziale di prevenzione in quanto costituiscono per il paziente a rischio di sviluppare lesioni da pressione l’intervento più efficace per proteggere il tessuto cutaneo dagli insulti meccanici pressori e delle forze di frizione e stiramento. È fondamentale, dunque, incoraggiare il paziente a modificare frequentemente la posizione qualora possieda autonomia residua; viceversa realizzare piani di mobilizzazione quotidiana per alternare le aree corporee sottoposte a compressione, anche in caso di utilizzo di adeguate superfici ad aria alternata nel paziente immobile e dipendente (linee di indirizzo regionale Regione Puglia).
Nell’identificazione del rischio di sviluppare una lesione da pressione di un paziente per poter stabilire un piano assistenziale appropriato è cruciale l’analisi delle caratteristiche basali, delle acuzie, e di eventuali trattamenti somministrati (sedazione farmacologica, ventilazione meccanica, etc.), e quindi delle condizioni di instabilità emodinamica, dei tempi di immobilizzazione e della permanenza in reparti di area critica. Diverse revisioni sistematiche in letteratura raccomandano, infatti, di organizzare piani di mobilizzazione personalizzati e customizzati sulla base dei suddetti elementi.
Manzano et al. valutando l’efficacia di un programma di riposizionamento intensivo (con frequenza di 1 riposizionamento ogni 2 ore) su 329 pazienti hanno riscontrato un incremento degli eventi avversi 47,9% vs 36,6% (programma di prevenzione standard). In accordo con questi risultati, è possibile che spesso i piani di riposizionamento specifici non vengano implementati, soprattutto nei reparti di terapia intensiva, non solo a causa dell’effettiva instabilità emodinamica e respiratoria, o della presenza di traumi che ne limitano le possibilità, ma piuttosto a causa di preoccupazioni per i potenziali effetti avversi del riposizionamento (instabilità respiratoria e/o emodinamica, rimozione di dispositivi invasivi), specialmente nei pazienti che vertono in condizioni cliniche critiche.
A tal proposito è bene evidenziare un interessante studio prospettico condotto in un Ospedale universitario di Parigi in Francia su pazienti adulti ricoverati in ICU per i quali era previsto, in accordo alle condizioni di acuzia, l’utilizzo di ventilazione meccanica per più di 24 h. In questo studio, infatti, a seguito del confronto effettuato tra l’applicazione di protocolli di prevenzione standard vs programmi di mobilizzazione intensiva, personalizzati sulla base delle condizioni cliniche specifiche e del rischio di sviluppare LdP rilevato sul paziente (mediante scala Braden), è emerso un dato fondamentale:
Nonostante non sia stata riscontrata alcuna riduzione dell’incidenza delle lesioni da pressione, in opposizione a quanto rilevato dallo studio di Manzano et al., non è stato riscontrato un incremento degli eventi avversi secondario a programmi di riposizionamento intensivo e ciò è probabilmente imputabile al fatto che Manzano et al. valutavano l'efficacia dell'applicazione di un programma di riposizionamento intensivo standardizzato che non teneva conto delle condizioni cliniche specifiche di ogni singolo individuo.
Questi risultati suggeriscono, quindi, che un riposizionamento personalizzato può essere effettuato in sicurezza anche per i pazienti in condizioni di instabilità e criticità cliniche con una buona tolleranza da parte del paziente stesso.
In questo caso le posizioni autorizzate nel gruppo di intervento erano semi-fowler 30°; decubito dorsale 45°; decubito semi-laterale sinistro o destro; o seduto su prescrizione medica.
Inoltre, la mobilizzazione progressiva, intesa come una serie di piani progettati per preparare i pazienti alla riabilitazione graduale e sostenibile, sembrerebbe utile, nello specifico proprio nei pazienti critici, per il miglioramento dello stato emodinamico e la riduzione della morbilità fisica post-trattamento acuto. Piani di mobilizzazione graduale avrebbero un effetto significativo, infatti, sulla pressione sistolica, la stabilizzazione della frequenza cardiaca e la riduzione netta dell’incidenza di lesioni da pressione con effetto massimale nella frequenza di 2 ore per 18 ore.
Per quanto riguarda la frequenza di riposizionamento, diversi studi in letteratura hanno cercato di individuare la frequenza ottimale confrontando gli intervalli tra 2 ,3, 4 e 6 ore considerando come outcome primario l’incidenza delle lesioni da pressione. I risultati sono molto discordanti e controversi e non identificano una frequenza ideale per il riposizionamento dei pazienti.
Nonostante le linee guida internazionali, come già evidenziato, prevedano una frequenza massima di 2 ore, secondo alcune fonti la posturazione ogni 2 ore non sembrerebbe essere la frequenza ottimale poiché il carico di lavoro degli infermieri aumenterebbe e non sarebbe coerente con le condizioni operative attuali (mancanza di personale, sovraccarico di lavoro) senza produrre alcun risultato in termini di incidenza di lesioni da pressione, che rimarrebbe sostanzialmente invariata. Alcuni studi dimostrano una buona efficacia clinica nell’uso di superfici antidecubito appropriate in accordo alla classe di rischio del paziente e protocolli di mobilizzazione ad intervalli di tempo fino a 4 ore.
Linee guida per la mobilizzazione e il riposizionamento dei pazienti fragili
In sintesi, di seguito alcune raccomandazioni estratte da linee di indirizzo regionale, linee guida internazionali e risultati in letteratura:
- La mobilizzazione e il riposizionamento dei pazienti dovrebbero assicurare che la pressione sulle prominenze ossee sia ridotta al minimo e che queste non siano a diretto contatto tra loro.
- Nella posturazione del paziente bisogna tenere conto delle forze di taglio, frizione e/o stiramento della cute, che dovranno essere minimizzate.
- Nel posizionamento del paziente a letto evitare l’utilizzo di lenzuola e cerate assorbenti perché riducono la traspirabilità cutanea, favoriscono la sudorazione predisponendo il paziente ad un aumento di rischio di macerazione cutanea. A tal proposito nella scelta delle superfici antidecubito bisogna considerare la qualità delle cover di rivestimento delle stesse, che - al fine di minimizzare attrito e forze di taglio - dovranno essere estensibili in lunghezza e larghezza e garantire un minimo coefficiente d’attrito, e garantire allo stesso tempo il mantenimento di un microclima ottimale grazie alla traspirabilità ai vapori e all’impermeabilità ai liquidi. Qualora non si riesca a limitare i danni da frizione e stiramento nel riposizionamento del paziente sulla superficie è utile avvalersi di specifici strumenti a disposizione dell’operatore sanitario, quali sollevatori, telini ad alto scorrimento, etc.
- I pazienti a rischio di LdP dovrebbero essere mobilizzati con una frequenza regolare, nel caso in cui si utilizzino superfici ad aria alternata ad elevata tecnologia il riposizionamento può essere eseguito anche ogni 3 o 4 ore, in quanto la frequenza di riposizionamento, proprio come le modalità, devono essere customizzate sulla base delle esigenze cliniche del paziente, del comfort e dell’operatività specifica.
- La mobilizzazione e il riposizionamento sono assolutamente necessari nonostante l’utilizzo di un dispositivo in grado di ridistribuire la pressione (es. materasso antidecubito, posizionatori). Infatti, i dispositivi antidecubito costituiscono un valido supporto nell’assistenza preventiva multidisciplinare e multifattoriale al paziente ma non sostituiscono l’assistenza stessa.
- I protocolli di riposizionamento personalizzati devono prevedere l’uso di schemi di posturazione, debitamente compilati (ora di mobilizzazione e postura assunta) e allegati alla documentazione clinica.
- I pazienti considerati ad alto rischio di LdP non dovrebbero permanere in posizione seduta per più di due ore.
- Per i pazienti che trascorrono lunghi periodi su una sedia o su una carrozzina bisogna comunque prevedere un piano di ridistribuzione dei picchi pressori, l’allineamento posturale, e la stabilità. In tale posizione bisogna considerare l’uso di cuscini antidecubito (ad aria alternata, in schiuma di poliuretano viscoelastico ad alte specifiche, in gel o silicone), ed è sconsigliato, invece, l’uso di ausili a ciambella.
- I pazienti con autonomia residua, seduti in carrozzina o sedia, vanno correttamente addestrati a cambiare i punti di appoggio della pressione almeno ogni 15 minuti e ad effettuare cambi posturali almeno ogni ora; per i pazienti totalmente dipendenti nella mobilizzazione, invece, bisogna prevedere dei piani di posturazione specifici con frequenza personalizzata in base alle risorse materiali utilizzate (per esempio presidi antidecubito), la risposta della cute del soggetto all’insulto pressorio, le condizioni cliniche generali e in ultimo ma non per importanza il comfort del paziente stesso.
- La lunghezza (profondità) della seduta deve permettere un buon posizionamento e appoggio della coscia (bisognerebbe lasciare 3-4 cm liberi prima del cavo popliteo); questo migliora la stabilità e distribuisce il peso su una maggiore superficie.
- Per i pazienti posizionati a letto, la posizione seduta a 90° è da evitare perché la distribuzione del peso graverebbe eccessivamente sulla regione sacrale; da preferire un’inclinazione della testa a 30°, migliore per la riduzione anche di forze di frizione e scivolamento (Linee Guida USL2 dell’Umbria).
- Per le stesse ragioni, in decubito laterale, bisogna evitare il posizionamento ad angolo retto sul trocantere inclinando a 30° max la testata del letto, in modo da mantenere una ampia superficie di appoggio.
- Bisogna attenzionare il posizionamento dei talloni sulla superficie: è possibile utilizzare appositi posizionatori su materasso standard o superficie antidecubito non adeguata per azzerare le pressioni di contatto. Nelle superfici antidecubito ad aria in grado di regolare in autonomia e in modo altamente tecnologico le pressioni di contatto, i posizionatori per il sollevamento dei talloni non si rendono necessari; è possibile utilizzarli solo se ritenuto opportuno mediante valutazione e giudizio clinico da parte dell’infermiere (presenza di lesione al tallone, dolore all’appoggio, etc.).
- Nella posturazione del paziente bisogna attenzionare il posizionamento di devices (catetere vescicale, drenaggi e dispositivi di ossigenazione) che potrebbero comportare danni tissutali da compressione (indicazioni operative Puglia 2019 Asl BT).
- Il mantenimento prolungato della posizione prona per almeno 12 ore è associato a una mortalità significativamente ridotta nei pazienti con ARDS ma al tempo stesso può essere causa di complicanze anche gravi, per cui il beneficio atteso deve essere maggiore dei possibili rischi (lesioni da pressione, scompenso cardiovascolare, trombosi e ictus, danni oculari, edema orofaringeo, etc.).
- Il paziente prono deve essere posizionato in posizione di Trendelenburg inversa con inclinazione del tronco tra 5° e 10°.
- Nel paziente supino, tenere le ginocchia inclinate tra 5° e 10° per ridistribuire adeguatamente i picchi pressori.
In una visione olistica del paziente non ci resta che personalizzare tali raccomandazioni in base alle condizioni cliniche acute e croniche del singolo individuo, al setting specifico della propria operatività e alle risorse strumentali disponibili, tenendo conto in primis delle preferenze del paziente e del grado di comfort e dell’obiettivo ultimo che è il miglioramento della qualità di vita della persona e la prevenzione di eventi avversi.
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